Al centro del Medio Oriente. Le visite di Biden e Putin

Nel mese di luglio due visite diplomatiche di alto livello in Medio Oriente hanno riportato l’attenzione sulla regione, segnalandone la ritrovata centralità a partire dalle crisi innescate dal conflitto in Ucraina in ambito energetico, alimentare e securitario. La prima è quella intrapresa dal presidente degli Stati Uniti Joe Biden, il quale, tra il 13 e il 15 luglio, si è recato in Israele, Cisgiordania e Arabia Saudita, nonostante i rischi connessi al viaggio. Quest’ultimo, infatti, è stato oggetto di un ampio dibattito prima di essere confermato, in quanto potenziale manifestazione delle vulnerabilità occidentali messe a nudo dalla guerra in Ucraina. Mentre ancora si versavano fiumi di inchiostro sulle difficoltà e gli insuccessi dell’amministrazione americana e si stilavano liste di vincitori e vinti degli incontri che hanno affollato il tour, cominciava una seconda visita nella regione, di calibro altrettanto elevato. Il 19 luglio il presidente russo Vladimir Putin lasciava Mosca alla volta di Teheran, per incontrare le sue controparti turca e iraniana, rispettivamente Recep Tayyip Erdoğan e Ebrahim Raisi, in occasione della settima riunione del cosiddetto formato Astana finalizzato alla pacificazione della Siria. I presidenti dei due paesi che si stanno di fatto confrontando sul territorio ucraino, dunque, hanno visitato la stessa regione nello stesso periodo, a dimostrazione di quanto il teatro ucraino e quello mediorientale siano inestricabilmente connessi e di come si influenzino a vicenda in modi a volte evidenti, a volte più difficili da identificare.

Il presidente americano Biden arriva in Israele, il 13 luglio 2022. Fonte: Getty Images Europe

Partiamo dalla visita di Biden: è chiaro che un viaggio diplomatico da solo non può cambiare le sorti delle relazioni tra Stati, né men che meno incidere radicalmente sugli sviluppi internazionali, ma ci può raccontare qualcosa non solo degli interessi americani in gioco e delle vie che Washington percorre per perseguirli, ma anche degli ostacoli che vi si possono trovare, così come delle posture degli altri attori della partita. Fondamentalmente, Biden ha lasciato la Casa Bianca con l’idea di ottenere precisi risultati. Non solo l’assenso, da parte dei paesi esportatori di petrolio, all’aumento della produzione per far fronte alla crisi energetica innescata dall’invasione russa dell’Ucraina, ma anche la creazione di un blocco unito contro l’Iran, i cui piani nucleari costituiscono una minaccia sempre più concreta. A questi scopi si aggiungeva la volontà di manifestare la perdurante presenza americana nell’area, con il fine dichiarato di non lasciare spazi incustoditi che potessero essere occupati dalle rivali Cina e Russia. Infine, Biden si è adoperato per una maggiore integrazione di Israele nella regione araba, prefigurando una completa normalizzazione dei rapporti tra lo Stato ebraico e l’Arabia Saudita, sulla scia degli Accordi di Abramo del 2020. Obiettivi ambiziosi e inevitabilmente correlati.

In occasione dell’incontro tra Biden e Yair Lapid, primo ministro di un Israele in piena crisi politica, le due parti hanno firmato la Dichiarazione di Gerusalemme, il cui punto più saliente riguarda l’impegno americano affinché “l’Iran non ottenga mai l’arma nucleare”. La possibilità che Teheran diventi una potenza nucleare costituisce il principale pericolo strategico per lo Stato ebraico, che non potrebbe accettare di perdere il monopolio regionale del deterrente. La Dichiarazione, inoltre, prevede la responsabilità dei due firmatari nel sostegno alla sovranità e integrità territoriale dell’Ucraina, a conferma di come le parti in causa stiano consolidando le loro posizioni lungo linee molto precise che vanno ben oltre il contesto regionale. Con l’apertura dei cieli sauditi ai voli israeliani, inoltre, insieme alla decisione di Israele e Arabia Saudita di rimuovere le forze di pace internazionali dalle isole di Tiran e Sanafir, lo Stato ebraico ha potuto ritenersi soddisfatto dei risultati della visita di Biden, interpretando questi sviluppi come passi importanti lungo la strada della normalizzazione con Riad. D’altra parte, quest’ultima ha presentato tali misure con toni molto diversi, giustificando l’apertura dello spazio aereo ai voli come funzionale a modernizzare il paese e a integrarlo maggiormente nel sistema internazionale, ad esempio rendendo possibile ospitare eventi sportivi di alto livello. Allo stesso tempo, l’Arabia Saudita ha ribadito di non essere disposta a instaurare effettive relazioni diplomatiche con Israele prima della costituzione di uno Stato palestinese, punto particolarmente delicato proprio a causa della frustrazione del popolo palestinese di fronte alle deludenti concessioni da parte dell’amministrazione americana. Biden ha garantito un aumento degli aiuti alla Palestina, per un totale di 316 milioni di dollari, ma nei discorsi pubblici non ha mai utilizzato i termini “occupazione” o “insediamenti”, né ha risposto di fronte alle richieste di dignità e giustizia per gli abitanti di Cisgiordania e Striscia di Gaza.

Il presidente americano Biden e il principe saudita Mohammed bin Salman si incontrano a Gedda il 15 luglio. Fonte: Getty Images/Anadolu.

Il rischio di passare per il Presidente che ha barattato i diritti umani per dei vantaggi economici ha raggiunto il culmine in occasione dell’incontro più atteso e mediatizzato del tour, quello con il regnante saudita Mohammed bin Salman, MBS. Il faccia a faccia tra i due capi di Stato è stato minuziosamente commentato, a partire dal loro primo saluto, letto come una vittoria intascata dal principe arabo che si è visto di fatto riconoscere la legittimità del suo governo. A Gedda, il presidente americano ha partecipato al summit dei membri del Gulf Cooperation Council, (GCC: Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Qatar, Oman), più Egitto, Giordania e Iraq. In questa occasione, le ambizioni di Washington si sono scontrate con la realtà dei fatti. In primo luogo, per quanto riguarda le richieste di risorse energetiche, l’indisponibilità dei paesi del Golfo a rispondere alle necessità occidentali non dipende tanto dalla volontà di fare del petrolio una merce di scambio con cui aumentare il potere negoziale, quanto dalla effettiva incapacità di aumentare la produzione, già spinta ai livelli massimi. Biden ha perciò lasciato la regione senza garanzie in merito, rimanendo in attesa dei risultati dell’incontro dell’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio nella sua forma allargata (Opec+), di cui fa parte anche la Russia, previsto per il 3 agosto. In secondo luogo, Biden non è riuscito a consolidare un fronte unito contro l’Iran. Sebbene gli Stati Uniti, Israele e i paesi arabi condividano la rivalità con la Repubblica Islamica, la loro percezione della minaccia iraniana è molto diversa. Se Israele ha bisogno di convincere Teheran che dotarsi di armi atomiche equivarrebbe a una dichiarazione di guerra, i paesi del Golfo sono più restii a mostrarsi favorevoli a questa opzione, e cercano anzi di trovare una posizione bilanciata (nei limiti del possibile) che scongiuri la possibilità di trovarsi coinvolti in uno scontro aperto. Mentre l’accordo sul nucleare (Joint Comprehensive Plan of Action, JCPOA) affonda definitivamente, l’Arabia Saudita coltiva una forma di dialogo con l’Iran, mediato dall’Iraq. In linea con il desiderio di ritagliarsi uno spazio più o meno autonomo tra schieramenti nettamente contrapposti, i paesi della penisola araba non sono disposti a recidere del tutto i loro legami nemmeno con la Russia e la Cina, sia in virtù dei vantaggi economici che questi comportano, sia a causa della percezione degli Stati Uniti come partner inaffidabile. In quest’ottica l’amministrazione statunitense sembrerebbe non aver raggiunto nessuno degli obiettivi prefissati, mentre da parte sua il governo di Teheran ha visto sfumare il pericolo di vedere i paesi confinanti stringersi convintamente contro l’Iran.

I presidenti di Russia, Iran e Turchia a Teheran, il 19 luglio. Fonte: Getty Images/Anadolu

Veniamo alla seconda visita, quella che ha portato Putin a partecipare al trilaterale con i presidenti di Iran e Turchia. Il formato Astana è stato confezionato nel 2015 appositamente per la situazione siriana, che, tuttavia, è stata in parte messa in ombra dal dossier ucraino. Anche se i tre paesi supportano fazioni diverse in molteplici teatri (in primis proprio quello siriano, dove Teheran e Mosca sono i principali sostenitori del governo di Bashar Al-Assad, al contrario della Turchia), sono mutuamente legati da interessi di vario tipo. La necessità condivisa di Russia e Iran di aggirare le sanzioni occidentali e di mostrare al mondo di non essere isolati ha portato i due stati a un rapido avvicinamento, per cui sono stati messi da parte, almeno per il momento, i motivi di diffidenza reciproca. In occasione dell’incontro, ad esempio, le compagnie nazionali russa e iraniana Gazprom e National Iranian Oil Company (NIOC) hanno firmato un accordo del valore di 40 miliardi di dollari. Allo stesso tempo, però, i due paesi produttori di risorse fossili possono ritrovarsi a competere per conquistare mercati alternativi a quelli occidentali, tra cui sicuramente quello cinese. La Turchia, dal canto suo, ha continuato a cercare di cavalcare la sua peculiare posizione di membro della NATO non antagonista della Russia per ritagliarsi un ruolo di mediatore che le ha consentito di conquistarsi uno spazio di rilievo negli equilibri che si delineano sulla scena internazionale, rendendosi anche garante degli accordi sull’esportazione del grano tra Russia e Ucraina. La Russia, quindi, non può prescindere dall’interlocutore turco, che a sua volta conta sul sostegno di Mosca nella gestione dei suoi problemi interni. Collaborazioni più dettate dalle contingenze che da obiettivi di lungo termine comuni.

Gli allineamenti internazionali dipendono dal contesto, con ogni Stato che cerca di guadagnare da ogni situazione il massimo beneficio, sia esso strategico, politico, o almeno economico. I paesi che si vedono esclusi da blocchi più o meno solidi di Stati che gli si contrappongono tenderanno a collaborare tra loro. Il caso di Russia, Iran e Turchia non fa eccezione. La fatica americana nella gestione di teatri complessi e geograficamente distanti – dall’Europa, al Medio Oriente, all’Indopacifico – è evidente. L’intervento diplomatico tra Israele e Golfo era una scelta quasi obbligata per dimostrare l’interesse statunitense a mantenere, e possibilmente consolidare, le sue relazioni con i paesi della regione. Regione che da sempre si qualifica per l’elevatissimo grado di complessità e per l’accavallarsi di interessi e obiettivi: provare a schematizzare le dinamiche mediorientali di qualsiasi momento storico produce sempre un disegno di una matassa intricata. L’elemento più appariscente, ora, è lo sbiadito ruolo degli Stati Uniti, che pagano per lo scarso investimento nella loro credibilità agli occhi dei loro tradizionali o potenziali partner. Il tentativo del Golfo Arabo di ritagliarsi una dimensione altra che non dipenda eccessivamente da alcuna potenza esterna, insieme alla crescente preferenza per formati multilaterali anziché bilaterali in cui Washington occupa una posizione decentrata, ne è chiara dimostrazione.

Veronica Stigliani